Per capire quanto l’economia circolare fa bene al clima, occorre misurarla

La 30esima Conferenza delle Parti, ovvero il più grande evento mondiale dedicato – sotto il cappello dell’Onu – ai negoziati sui cambiamenti climatici si terrà quest’anno a Belém, in Brasile, dal 10 al 21 novembre; si tratta di un appuntamento di particolare rilievo, in quanto cade a un decennio dallo storico Accordo di Parigi sul clima.

Come ormai noto da tempo grazie alle edizioni del Circularity Gap Report, il 70% delle emissioni globali deriva dalla gestione e dall’uso dei materiali. Ripensare le filiere produttive in chiave circolare – riducendo l’estrazione di risorse, estendendo la vita utile dei beni e valorizzando gli scarti – diventa quindi una strategia climatica oltre che economica. Eppure non seguiamo ancora come dovremmo la rotta indicata chiaramente dalla gerarchia europea per la gestione rifiuti, che pone al primo posto la prevenzione seguita da riuso, recupero di materia, recupero di energia e smaltimento in sicurezza.

Un nuovo studio pubblicato su Resources, Conservation and Recycling a guida dei ricercatori del Centro euromediterraneo sui cambiamenti climatici (Cmcc), intitolato Unlocking circular economy policies in integrated assessment models, individua quali sono le strategie di economia circolare che sono più utili nella lotta alla crisi climatica, attraverso modelli di valutazione integrata (Iams).

«Per anni, i modelli climatici ci hanno detto che dobbiamo trasformare i nostri sistemi energetici – e avevano ragione. Ma sono rimasti in gran parte silenziosi su un’altra potente soluzione climatica: usare meno risorse e usarle meglio – spiega la ricercatrice Leticia Magalar – La nostra ricerca mostra che questo silenzio non dipende dal fatto che l’economia circolare non sia importante, ma dal fatto che i modelli non sono ancora attrezzati per valutarla adeguatamente. La buona notizia è che ora abbiamo una chiara direzione da seguire».

Lo studio analizza 15 Iam, rilevando che la copertura attuale si concentra soprattutto sulla riduzione dell’uso dei materiali (50%) e sul riciclo (28%), mentre strategie come riparazione, riutilizzo ed estensione della vita dei prodotti rappresentano solo il 19% circa. Inoltre, la rappresentazione delle catene di approvvigionamento risulta incompleta, con un focus prevalente sulle fasi di produzione e consumo e una scarsa attenzione all’estrazione delle risorse e alla gestione dei rifiuti.

«Una politica di riciclo – conclude Magalar – non può funzionare da sola: richiede un’adeguata raccolta differenziata da parte delle famiglie, infrastrutture di raccolta, fabbriche in grado di utilizzare materiali riciclati e prodotti progettati fin dall’inizio per essere riciclabili. Tutti questi elementi sono influenzati da differenze culturali e livelli di reddito che oggi non vengono considerati».